Siamo nati in campagna e sappiamo che il suolo si sta impoverendo, cioè la sostanza organica disponibile per far crescere un raccolto è di molto ridotta rispetto a 60 anni fa. Le cause sono le coltivazioni intensive e l’esagerato utilizzo di prodotti chimici che distruggono le comunità microscopiche che lo rendono fertile. Ne è una prova che ormai se non si concima il suolo, poco si raccoglie. Pare che i terreni agricoli del prossimo futuro saranno valutati in base alla sostanza organica contenuta, piuttosto che alla loro estensione, perché si parla di una tendenza all’impoverimento e alla desertificazione.
Cosa scegliere di coltivare: tra grani antichi o grani moderni?
Le diverse varietà, antiche e moderne, si comportano molto diversamente per quanto riguarda le rese agricole:
le varietà moderne, se opportunamente supportate con forti modificazioni del suolo, possono raggiungere elevate rese produttive. Se questi interventi vengono meno, esse crollano e diventano confrontabili con le “varietà antiche”.
Le varietà antiche invece hanno rese assai ridotte, ma si adattano molto bene ai regimi di coltivazione “a basso input”, dove cioè non si effettuano forti modifiche ai terreni di coltura, come per esempio il regime biologico.
I grani antichi possono nutrire il pianeta.
Sentiamo spesso ripetere che per sfamare quella grande fetta di popolazione mondiale che non ha un sufficiente accesso al cibo, è necessario produrre di più e per farlo si cercano linee genetiche sempre più produttive.
A nostro giudizio c’è una visione totalmente errata del mondo e della vita dietro a questa affermazione:
- Costruire in laboratorio il seme “perfetto” è un’utopia. Una volta piantato in un terreno poi vanno ricostruite le condizioni ideali per farlo rendere al massimo e si ribalta quindi quel concetto naturale di adattamento della pianta al terreno e non viceversa.
- Produrre di più (ammesso e non concesso che sia corretto) genera inquinamento. Continuiamo ad immaginare il mondo partendo dalle premesse del punto precedente. Per far sì che ogni suolo sia “perfetto” per il seme “perfetto”, bisogna aumentarne la massa organica con concimi, bisogna avere a disposizione tanta acqua (che sempre più spesso manca) e spesso anche mezzi agricoli sufficientemente tecnologici per coltivarlo. Infine non è detto che la varietà altamente produttiva sia anche resistente a funghi, parassiti e conviva bene con le malerbe. In questa visione di solito il seme “perfetto” in parte è meno soggetto a malattie genetiche, ma poi deve essere difeso da infestanti e parassiti con fitofarmaci. Non ci possiamo più permettere di inquinare, continuando a proporre un modello di sviluppo che non includa il rispetto del pianeta e delle risorse naturali. Questo è un modello fallimentare.
- Infine “Chi” dovrebbe produrre di più? Sempre i potenti agricoltori occidentali per poi vendere ai paesi in via di sviluppo, se non il pane, almeno i semi? Anche in questo caso ci sono delle falle nel ragionamento, che continua a fondarsi su modelli di sviluppo errati. Non è l’occidente che deve produrre cibo per chi non ne ha, ma ognuno deve essere in grado di prodursi il proprio cibo nella propria terra liberamente. Serve quindi che ogni popolo abbia la sua terra da coltivare e abbia i propri semi (adatti ad essere coltivati proprio in quel territorio). Non devono essere per forza semi “super” usciti da qualche laboratorio, vanno benissimo semi di varietà locali anche selezionati per essere migliori, ovvio, solo che la selezione la devono fare i contadini per il loro territorio e non le multinazionali straniere.
I grani antichi sono centinaia di varietà in tutto il mondo. Ogni regione geografica, ogni area produttiva può selezionare quelli maggiormente idonei alle caratteristiche del territorio dove dovranno crescere. Partendo dalle varietà più promettenti si procede con la selezione continua in campo e le rese aumentano. Ogni comunità può essere autosufficiente, nutrire i suoi fratelli e cominciare la sua emancipazione.
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